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Universalità dei diritti
La linea costituzionale è molto chiara. Per dare attuazione ai diritti non basta che tutti concorrano alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva come prescrive il già ricordato articolo 53, sebbene questa sia una condizione dalla quale non si può prescindere. Occorrono almeno altre tre condizioni: a) che l'iniziativa economica privata non si svolga in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art. 41); b) che alla proprietà privata, pur libera, sia posto un limite che ne assicuri la funzione sociale e l'accessibilità a tutti (art. 42); c) che sia possibile trasferire allo Stato, a enti pubblici o «a comunità di lavoratori o di utenti» imprese che si riferiscano a servizi pubblici, a fonti energia o a situazioni di monopolio (art. 43).
Viene sancito in tal modo il principio fondamentale del pluralismo nelle forme e nel diritto di proprietà, chiaramente in contrasto con il totalitarismo dilagante della proprietà capitalistica privata. Un principio che trova conferma nei successivi articoli, riguardanti i limiti alla proprietà terriera e il razionale uso del suolo, la funzione sociale della cooperazione, il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese. E infine la tutela del risparmio e il controllo del credito, che nella visione di Luigi Cavallaio e di Giorgio Lunghini assumono un valore strategico.
In sintesi possiamo dire che il fondamento del lavoro, in quanto ridefinisce il contenuto della libertà e dell'uguaglianza, è anche il riferimento ineludibile per la ridefinizione e la finalizzazione della proprietà, nonché per il controllo e il governo del mercato. E qui emerge in tutta la sua portata innovativa l'aspetto politico del problema, poiché i padri costituenti hanno operato una rottura con il passato del fascismo senza voltarsi indietro verso lo Stato liberale. Ai lavoratori e alle lavoratrici vengono riconosciuti il diritto di sciopero e la libertà sindacale (artt. 39 e 40), senza i quali la loro libertà sarebbe amputata. Ma le lavoratrici e i lavoratori conquistano anche la possibilità, attraverso il partito politico, di lottare nella società e nelle istituzioni, e di farsi classe dirigente «associandosi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49).
Un passaggio ineludibile, in assenza del quale l'intera costruzione costituzionale sarebbe solo una dichiarazione di buone intenzioni che galleggia sulle nostre teste. Il progetto di una Repubblica democratica fondata sul lavoro, che non guarda al passato e si spinge a introdurre elementi di socialismo, come è stato giustamente osservato, non può essere scisso dalla partecipazione e dal protagonismo della classe lavoratrice. Per questo i costituenti avevano ben chiaro il nesso organico che lega i principi e i diritti costituzionali alla presenza politica organizzata in partiti dei lavoratori e delle lavoratrici. Ma cosa può accadere se la politica degrada a mera gestione del potere? Se il mondo del lavoro viene di fatto espulso dal sistema politico, senza organizzazione, rappresentanza e rappresentazione nella società, nel parlamento, nella comunicazione?
Una Repubblica democratica fondata sul lavoro nella quale i lavoratori e le lavoratrici non hanno alcun peso politico, e sono esclusi dalle decisioni che riguardano la loro stessa vita: questo è il problema drammaticamente aperto del nostro tempo. Uno stato delle cose che sta logorando le fondamenta democratiche della Repubblica, e ci spinge verso il ridimensionamento della nostra economia, la disgregazione della società, la subalternità gregaria della cultura e dei media. Troppo pessimismo? No. Constatazione elementare dello stato dei fatti, ai quali viene imposta la maschera di un pensiero dominante che cancella la realtà spesso insostenibile della condizione umana e del conflitto tra le classi, oggi esasperato dalla dittatura del capitale sul lavoro e sull'intera società. Uno stato delle cose ancora più preoccupante perché in discussione sono principi e diritti della nostra Costituzione che hanno valore universale e costituiscono una tavola di riferimento su cui si potrebbe promuovere un movimento dei subalterni e degli sfruttati in Europa e non solo, superando frammentazioni, disgregazioni e guerre tra poveri.
Valore universale, nelle condizioni del mondo di oggi, hanno i principi fissati nei citati articoli 3 e 4 sull'uguaglianza sostanziale e sulle condizioni da rimuovere per rendere effettivo il diritto al lavoro. Continuando con gli esempi si può citare anche l'articolo 9, dove si stabilisce che la Repubblica ha il compito di promuovere lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica, e di tutelare l'ambiente e il patrimonio storico e artistico. I pensieri lunghi ed elevati dei costituenti si riscontrano anche nel principio dell'articolo 11, che ripudia la guerra in quanto «strumento di offesa alla libertà di altri popoli e di risoluzione delle controversie internazionali».
Ma hanno valore universale anche il diritto a una retribuzione paritaria per uomini e donne a parità di condizioni lavorative, proporzionata alla quantità e qualità di lavoro, e comunque sufficiente ad assicurare «un'esistenza libera e dignitosa». Nonché il diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite, alla tutela della salute, all'assistenza, alla pensione. E naturalmente all'istruzione, che è fattore costitutivo della libertà della persona. Non si può proclamare la libertà e l'uguaglianza tra gli esseri umani se all'universalità dei diritti civili non corrisponde l'universalità dei diritti sociali.