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Articolo 3
Muovendo dalla premessa che «il lavoro costituisce il valore e l'interesse fondamentale sottostante all'ordinamento», l'economista e il giurista sostengono che tale principio è «la chiave di volta dell'intero ordinamento economico». Quindi — argomentano — la Costituzione italiana respinge l'idea, tipicamente borghese, che dalla visione del lavoro come «forza creatrice soprannaturale» pretende di derivare il principio «secondo cui l'uomo che non ha altra proprietà, all'infuori della sua forza lavoro, dev'essere asservito agli altri uomini che si sono resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro».
In altri termini, essendo stato cancellato il principio della proprietà sacra e inviolabile ancora vigente nello Statuto albertino, su cui si è retta la dittatura fascista che aveva schiavizzato i lavoratori, ciò significa che la Repubblica democratica fondata sul lavoro, nel conflitto che caratterizza la natura stessa del capitale in quanto rapporto sociale, riconosce la supremazia del principio lavoristico sul principio capitalistico. Possiamo dire, senza cadere nella retorica inconcludente di cui oggi si abusa, che si tratta effettivamente di una conquista di portata storica, poiché il pilastro che sostiene il patto tra gli italiani non è più il cittadino proprietario, bensì il cittadino lavoratore. Colui il quale per vivere —uomo o donna, finalmente anch'essa titolare del diritto di voto — deve vendere la propria forza lavoro materiale e immateriale ai detentori dei mezzi di produzione che la usano per ottenere un profitto.
Decisivo è il secondo comma dell'articolo 3, che va oltre l'uguaglianza di fronte alla legge, pure essenziale, e si misura con il tema cruciale, oggi di fatto ignorato, dell'uguaglianza sostanziale: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Dove risulta che non è sufficiente agire nella sfera in cui si distribuisce il reddito, ma occorre intervenire nel rapporto di produzione capitalistico, vale a dire nel rapporto di proprietà, come con chiarezza prescrivono gli articoli 42, 43, 44.
Lunghini e Cavallaro sottolineano che in una società capitalistica divisa in classi come la nostra, il conflitto distributivo tra lavoratori, capitalisti e rentiers dipende da molteplici fattori, interni ed esterni alla produzione e, tra questi, dai concreti rapporti di forza tra le classi. «Sicché l'unica cosa che, semplicemente, si può dire è che i profitti saranno alti o bassi a seconda che i salari siano bassi o alti». Di cosa parliamo, se non della contraddizione tipica del modo di produzione capitalistico, che il capitale, in quanto rapporto sociale, costantemente ha tentato e tenta in vario modo di superare?
«Proprio perciò — chiariscono i due autori — l'art. 3, secondo comma, della Costituzione si può considerare, da un lato, come presa d'atto che, in una società capitalistica, il "non intervento" dello Stato equivale a intervento a favore della classe dominante, cioè al riconoscimento che chi è più forte economicamente può dettare le condizioni di vita di chi è più debole, e dall'altro lato come manifestazione del convincimento che la struttura socio-economica propria della società capitalistica debba essere superata in favore di un diverso modello di società, in cui i principi regolatori del modo di produzione capitalistico vengano temperati e affiancati da altri».
È la questione cruciale posta dalla Costituzione, che delinea un progetto di nuova società da conquistare. Ed è esattamente per questo motivo che la Costituzione antifascista, subito dopo la sua approvazione, è diventata terreno di lotta tra forze del rinnovamento e forze della conservazione. Un progetto che oggi, travolti come siamo da una crisi di fondo del modo di produzione capitalistico — non solo economica e sociale, ma anche politica e culturale — diventa particolarmente attuale per la sua forza innovativa e per la sua capacità di aggregazione, peraltro confermate dal referendum del 4 dicembre 2016.