Questo saggio di Vladimiro Giacché (Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato, Reggio Emilia, Aliberti editore 2012, pp. 174), sempre sorretto da una documentazione di prima mano e da un'argomentazione serrata, è un testo di grande interesse, che muove dalle cause della crisi, ci guida poi attraverso i suoi percorsi, e indaga infine la condizione dell'Europa e dell'Italia. Emergono le ragioni di un probabile esito catastrofico, ma anche le possibili vie d'uscita.
Si comincia con il rovesciamento del canone interpretativo corrente: «non è la crisi finanziaria ad avere contagiato l'economia reale, è vero il contrario» come dimostra l'analisi delle tendenze dell'economia americana. Infatti, la bolla cresciuta sui mutui subprime, esplosa in Usa nell'estate 2007 appiccando il fuoco della crisi globale, portava allo scoperto un «eccesso di offerta» che veniva da lontano, seppure mascherato dalla crescita esponenziale del credito facile a sostegno della domanda. Già nel 2006 il mercato immobiliare aveva mostrato evidenti segni di cedimento, e alla fine la domanda non ha potuto oltrepassare i confini delimitati dalla compressione dei salari: è stata la prima esplosione della crisi.
Poi si è propagato un effetto a catena. I cedimenti nel settore immobiliare in America, vale a dire nell'economia reale, hanno fatto crollare i titoli derivati dai mutui subprime. Alcuni fondi chiudono, e il contagio varca l'Oceano. Siamo ancora nel 2007 e nel Vecchio Continente i titoli "tossici" fanno le prime vittime in Francia e in Germania. In Gran Bretagna la banca Northern Rock viene nazionalizzata per bloccare la corsa agli sportelli. Poiché i mutui subrime sono legati a una molteplicità di strumenti finanziari, e dunque a un eccesso di credito realizzato con i soldi altrui, il loro il crollo «provoca l'effetto di una miccia in una polveriera».
Con il fallimento di Lehman Brothers nel settembre 2008 la crisi raggiunge il punto di svolta. L'eccesso di liquidità - in realtà una marea di debiti su cui galleggia la società - si rovescia nel suo contrario. Si bloccano i prestiti interbancari, i canali creditizi sono ostruiti, crollano i prestiti a imprese e famiglie. Di conseguenza crollano gli investimenti, e ciò provoca la caduta della produzione e del commercio globali. Cresce la disoccupazione, gli effetti sociali della crisi sono drammatici. A questo punto risulta evidente che «è crollato l'edificio della crescita basata sulla finanza e sul debito», vale a dire l'assetto capitalistico del XXI secolo fondato sui "liberi mercati".
L'autore ricostruisce efficacemente i passaggi che dimostrano perché la finanziarizzazione dell'economia non è la causa della crisi, bensì un sintomo e al tempo stesso una droga che ne accentua le convulsioni. La conclusione è che la crisi attuale rappresenta il punto di caduta della perdita di efficienza e di profittabilità del capitale, un processo cominciato sul finire anni 70 «a cui si è risposto con la finanziarizzazione su larga scala». Si è trattato del tentativo di puntellare l'eccesso di capacità produttiva fornendo alternative al calo degli investimenti, e di compensare la perdita di potere d'acquisto dovuta alla compressione dei redditi da lavoro e alla crescita enorme delle disuguaglianze.
Alla metà del 2009 i sussidi e le garanzie a sostegno delle banche di Usa, Gran Bretagna e Stati dell'Eurozona ammontavano alla modica cifra di 14.000 miliardi di dollari, pari al 50 per cento del pil di tutti questi Paesi e all'indebitamento dei soli Stati Uniti. I debiti privati diventano pubblici, la crisi si manifesta come crisi del debito sovrano. Non si tratta però degli effetti perversi di politiche neokeynesiane a sostegno della domanda effettiva, bensì di pure socializzazioni delle perdite, che non toccano i meccanismi di funzionamento dei mercati e tanto meno gli assetti proprietari. E perciò aggravano la crisi: come si vede in Grecia, dove le sovvenzioni alle banche combinate con il taglio della spesa sociale e dei salari hanno portato al tracollo dell'economia reale e alla crescita del debito.
I più indebitati sono oggi gli Usa, il Giappone e la Gran Bretagna, il Paese dove sommando debito pubblico e privato, si raggiunge il record mondiale del 469 per cento rispetto al pil. Dunque, dovrebbero essere questi gli Stati più esposti al default da debito sovrano, e in effetti il rischio è enorme. Però al centro della crisi c'è oggi l'Eurozona, e al suo interno sono in bilico i singoli Paesi. L'attacco della speculazione si concentra nel Vecchio Continente, ma il pensiero economico dominante non chiarisce perché. Resta in ombra, coperto dalle felpate parole della diplomazia, un macroscopico dato di fatto: la vera e propria guerra del dollaro contro l'euro per la riconquista della indiscussa egemonia valutaria globale. Non a caso i principali fondi speculativi che attaccano l'euro sono denominati in dollari.
Giacché mette in rilievo soprattutto che, per un verso, l'abnorme crescita del debito sovrano «è conseguenza della crisi». Per un altro verso «deriva da squilibri di fondo tra i Paesi europei», che l'euro «ha addirittura aggravato». È la storia di questi mesi, con la signora Merkel impegnata a scaricare i costi della crisi sui Paesi più deboli attraverso la rigidità dei bilanci, determinando in Europa una condizione esplosiva sotto il profilo sociale e democratico, e portando la stessa Germania in un vicolo cieco.
L'Italia entra in gioco nel 2010, quando con il nuovo patto di stabilità l'Ue a guida tedesca decide di porre l'attenzione non solo sul deficit, ma anche sul debito pubblico. Così i mercati vengono allertati, e il gioco si fa duro sotto il ricatto dello spread. Dopo Berlusconi, l'ineffabile fiscalista della Valtellina porta la responsabilità più grande: Tremonti non negozia e non esercita il diritto di veto, tace e acconsente. Il risultato è che l'Italia dovrebbe generare un avanzo di 47 miliardi l'anno, dopo il pagamento di 72 miliardi di interessi.
Un peso del tutto insostenibile accettato dal governo Monti, mentre il Paese è entrato in recessione e si affacciano in Europa i peggiori fantasmi del secolo passato. Occorre cambiare i paradigmi culturali e le scelte di politica economica, avverte Giacché, che non lesina proposte. E se il timoniere non vuole cambiare idee e rotta - conclude - «resta pur sempre un'altra possibilità: cambiare il timoniere». Ma questa è un'altra storia.
Paolo Ciofi