di Maurizio Barletta - Quando la sinistra resta senza lavoro - Nell'attuale produzione editoriale italiana, orientata a osservare il procedere del sistema e del contesto politico, sono assolutamente sporadici i libri che sviluppano una determinata tesi corredandola con una seria offerta di riflessioni e documentazioni che attraversano direttamente l'economia, il dibattito stesso e, indirettamente, l'assetto costituzionale del Paese. Appunto in questo senso rappresenta una fortunata eccezione l'ultimo libro di Paolo Ciofi che, già nel titolo, Il lavoro senza rappresentanza. La privatizzazione della politica. (Edizioni del Manifesto, pp. 314, 24 eu ro) esplora una cruciale aporia che altre dispersive analisi del sistema politico nostrano si limitano a costeggiare e, sostanzialmente, a eludere. La tesi enunciata dall'autore è bruciante e si proietta (pur cronologicamente muovendo dal trauma elettorale del 2001) sul dibattito politico e sindacale del l'ultimo decennio del novecento, investendo non soltanto le forze della sinistra che affrontarono l'esperienza di governo, ma anche quelle che per vocazione antagonista non condivisero tale prova. La tesi di Ciofi è che le dislocazioni politiche degli ultimi convulsi decenni si sono determinate attraverso passaggi di ordine meramente tattico, con un'ostentata dismissione dei riferimenti sociali dei partiti che, oltre che a sfibrare il tessuto e lo spessore culturale delle forze della sinistra, hanno dato luogo a un'anomalia sempre più trasparente che vede nel nostro paese il lavoro deprivato di un'autonoma e libera rappresentanza politica. Sappiamo bene che l'approdo perentorio a cui giunge Ciofi è confutato indicando la radicale e simultanea trasformazione del capitale e del lavoro, come una ragione necessaria e sufficiente per spiegare l'attuale congiuntura della rappresentanza e per indurre a confidare piuttosto in un'evoluzione positiva verso gli assetti inediti della modernizzazione, In questa direzione il libro di Ciofi è la più attrezzata risposta degli ultimi anni tanto agli apologeti della modernità «senza se e senza ma», quanto agli schematici osservatori della globalizzazione. Perché l'autore, piuttosto che procedere nella disimpegnata descrizione della globalizzazione e dei processi che la incorniciano, punta di rettamente sull'osservazione degli effetti della globalizzazione stessa all'interno del le economie internazionali, rilevandone le specularità e l'analogia morfologica in termini di frammentazione sociale e precarizzazione del lavoro. I capitoli che Ciofi dedica all'analisi del decennio contrassegnato dalla svalorizzazione del lavoro e delle sue componenti internazionali sono particolar mente convincenti, perché procedono non per salti logici, e quindi non apprezzabili, ma sviluppando un robusto intreccio che rivela il parallelismo tra l'instabilità globale e lo spaesamento, il deficit decisionale del potere politico, colto in tutta la sua subalternità alle procedure oltranziste della globalizzazione capitalistica.
Un lungo tragitto analitico al termine del quale, Ciofi, dopo essere riuscito a far transitare dalla cruna dell'ago economia e politica, senza sottometterle a separazioni arbitrarie, risponde all'inevitabile «che fare?» sostenendo che solo una politica che riassuma le sue prerogative può essere in grado di promuovere processi attendibili di ricomposizione. Una politica, cioè, capace di recuperare una vocazione autenticamente costituente, e di determinare le condizioni per un rinnovato pluralismo, per un patto capace di fornire una motivata e libera rappresentanza del lavoro.
da Avvenimenti, maggio 2004