di Francesco Granone - La Costituzione come programma? - Il nuovo libro di Paolo Ciofi è un testo dalla lettura facile e coinvolgente, che si segnala per la semplicità e la nettezza delle tesi e, nello stesso tempo, per l'approfondimento dedicato ai temi trattati con un'argomentazione sempre sostenuta da una consistente documentazione, che non cede al rischio del didascalismo e non tradisce l'impegno a sollecitare la curiosità intellettuale e l'intelligenza critica dei lettori, i quali si trovano ad affrontare pagine dense di dati e di analisi dalle quali prende progressivamente corpo, con uno sforzo costante di motivare le affermazioni, la tesi conclusiva dell'opera.
Il quadro che Ciofi richiama dettagliatamente - sia nelle premesse storiche che nella evoluzione attuale - si dispiega con una coerenza interna che si fa apprezzare per la proposta dei nessi (alcuni dei quali tuttora inadeguatamente inesplorati) che consentono al lettore di comprendere a fondo i dilemmi dell'oggi rintracciandone le radici nella storia recente.
Questo è forse uno dei meriti principali dell'opera: risvegliare in chi legge la voglia di ripercorrere con la sua testa e in forza dei suoi stessi ricordi di capire - evitando sia le semplificazioni nostalgiche che gli adattamenti opportunistici - in un momento nel quale l'ottundimento diffuso delle intelligenze sembra inevitabilmente accompagnarsi all'ottundimento delle coscienze.
Questo 'accompagnamento' del lettore è aiutato dalla particolare struttura del libro, che appare consapevolmente indirizzata anche allo scopo di facilitare il viaggio nella memoria.
Nel primo capitolo, Ciofi affronta la descrizione di quello che - nel concreto - appare il 'dilemma politico' attuale: da un lato i caratteri fondanti dell'agire del berlusconiano 'partito della proprietà', dall'altro il 'riformismo liberale' dei governi ulivisti.
La tesi, netta, è posta: si apre un 'vuoto' - ci suggerisce Ciofi - un 'deficit' di sinistra del quale è obbligatorio, anche per il lettore, indagare le ragioni storiche, sociali e culturali, la cui interpretazione viene puntualmente proposta nel capitolo successivo: "Il decennio della svalorizzazione del lavoro".
Questa è, dunque, la chiave di lettura che l'autore ci propone. In questa chiave si apre, così, una lunga parentesi analitica. Anzi, un percorso d'indagine fondato su molti dati e molte citazioni di fonti, sia sul versante 'interno' (l'Italia e l'Europa) sia nello scenario 'globale', per giungere, infine all'attualità delle proposta conclusiva.
Questo nucleo centrale del libro di Paolo Ciofi costituisce, a me sembra, la novità più forte.
E, forse, per una ragione semplice e inquietante nello stesso tempo: si compie un'operazione di verità, si portano in luce fatti, dati, nessi rimossi o manipolati dalla falsa coscienza di condotte politiche, di improvvisate teorie 'modernizzatrici' che, nell'ultimo quindicennio, non hanno saputo (o voluto) fare i conti con la realtà, non hanno saputo (o voluto) liberarsi dai vincoli delle 'opportunità' della politica contingente, dall'assillo del (presunto) premio elettorale, dai complessi di colpa per una storia della sinistra frettolosamente liquidata come un cumulo di errori e deprivata dell'oggettività (e della dignità) delle sue radici culturali e sociali. E così, il filo della ricostruzione si dispiega coerente e - vorrei dire - finalmente 'sereno' e 'oggettivo', sia che investa il quadro economico e la realtà istituzionale degli Stati Uniti d'America, sia che descriva la parabola e la conclusione tragica dell'esperienza rivoluzionaria poi incarnatasi nella storia dell'Urss nell' intreccio drammatico, paradossale, fra l'incommensurabilità dell'ambizione liberatrice e la realtà delle spaventosa tragedia umana e politica.
A mano a mano che il filo si dipana, il 'vuoto' - il 'deficit di sinistra' - si delinea dunque sempre più evidente e si accompagna - senza automatici semplicismi - alla descrizione dei preannunci che tormentano il mondo d'oggi: possibili catastrofi economiche, ambientali e politiche e, soprattutto, la diffusione inedita della 'moderna' violenza: sia quella localizzata nel tormentato Medio Oriente israelo-palestinese, sia quella delle 'guerre preventive' teorizzate e praticate dall'ormai unica grande potenza mondiale, sia quella terroristica scatenata da attentati pianificati e realizzati sotto l'egida di organizzazioni 'fondamentaliste' che sembrano non riconoscere più alcun limite nell'alimentare quella perversa spirale che assurdamente congiunge l'integralismo dei dominatori senza limiti — i 'neocons' che, per dirla alla Luttwak, teorizzano la 'dittatura del capitale' - e l'integralismo dei dominati, sempre più disperati perché senza una realistica prospettiva di riscatto.
Nella storia - sembra volerci dire Ciofi -, come in politica, i 'vuoti' non resistono a lungo. Sicché, dopo il crollo dei regimi del cosiddetto 'socialismo reale' e mentre le leadership delle sinistre occidentali provvedevano alla rimozione delle proprie radici, la 'vecchia talpa' continuava a scavare senza sosta, indifferentemente sotto i piedi del 'giusto' e sotto quelli 'dell'empio', fino all'unipolarismo attuale e a quella 'privatizzazione universale' che costituisce il titolo della penultima tappa del percorso che ci viene proposto: la politica, insomma, come 'funzione tecnica' dell'economia, come dice Ciofi.
Siamo all'oggi: è, quindi, sul terreno incerto che ancora ci sostiene, su ciò che ancora regge sulle gallerie e sulle vere e proprie voragini che la storia ha scavato negli ultimi trent'anni che dovrebbe inverarsi la tesi non banale che l'autore ci propone: «Un reale processo riformatore è possibile [...] se si tiene fermo, idealmente e praticamente, il principio della trasformabilità del sistema».
Insomma, se si preferisce, 'Un altro mondo è possibile', come si dice oggi invocando quel principio che non può essere disinvoltamente negato, pur se «sfigurato - come dice Ciofi - dall'esperimento sovietico e dei Paesi dell'Est». Altrimenti — suggerisce ancora, non senza un intento provocatorio, Ciofi citando Manuel Vasquez Montalban — «si abbandona il marxismo e si finisce per credere agli oroscopi, senza distinguere il bene dal male».
Il 'vuoto' non 'resiste' e, dunque, non esiste. Eccoci dunque, qui da noi, alla programmatica violenza verbale nei confronti degli avversari, al disprezzo delle istituzioni e degli ordinamenti della Repubblica - dal Parlamento alla magistratura - all'avversione esplicita nei confronti delle organizzazioni dei lavoratori (e non della sola Cgil), di nuovo all' 'anticomunismo viscerale', alla totale subalternità agli interessi privati del 'Capo' e a forme di nuovo servilismo (ma espresso con le pacche sulle spalle) nei confronti del governo americano, la critica al quale è, naturalmente, segno di bieco o inconsapevole 'antiamericanismo'. Senza più antagonisti di commisurabile potenza (neppure il pur poderoso movimento internazionale che lotta contro La globalizzazione della 'dittatura del capitale' e i suoi effetti sull'umanità e sul suo habitat, secondo Ciofi: e non credo proprio che abbia torto, purtroppo) che ne limitino l'espansione planetaria in termini economici, politici e militari, l'organizzazione economica e l'assetto dei rapporti sociali e politici statunitensi non costituiscono più un modello col quale confrontarsi, ma il modello da attuare senza riserve e in toto, in ogni area del globo, quali che ne siano la storia, le tradizioni culturali e l'assetto socio-politico attuale.
In altri termini, prosegue Ciofi, «si è venuto affermando un capitalismo particolarmente aggressivo, speculativo e instabile, che mette a rischio la sicurezza del pianeta dal punto di vista umano ed ambientale» e non esita più, in assenza di antagonisti che lo frenino, a ricorrere senza remore alle avventure militari più spregiudicate e pericolose per l'umanità intera.
L'unipolarismo USA ha sostituito gli equilibri creati dall'esito del secondo conflitto mondiale. li 'vuoto' è stato immediata mente colmato, dunque, anche sullo scenario 'globale', e molti dei corifei del multipolarismo - che, negli anni '70 e '80, si affannavano a stigmatizzare l'effetto degli Accordi di Yalta - oggi sono i protagonisti di una ridicola quanto squallida campagna neomaccartista volta a tacciare di 'comunismo' e di 'antiamericanismo' chiunque si opponga, o anche solo critichi, la politica 'imperiale' del governo statunitense, espressione - in modo sempre più scevro da mediazioni tra potere economico e potere politico - delle classi dominanti americane, del 'blocco militare-industriale', secondo la definizione data in epoca lontana da Dwight D. Eisenhower (che, certo, se ne intendeva).
Con buona pace di quanti hanno contribuito all'affermazione «del fondamentalismo ideologico del pensiero unico», come scrive Ciofi, destrutturando l'apparato concettuale e gli strumenti di analisi del reale di cui il movimento operaio si era dotato in due secoli di riflessione, di elaborazione culturale e di lotte politiche e sociali che hanno costituito anche il fondamentale terreno di verifica delle proprie teorie.
Insomma, non c'è spazio per valutazioni ottimistiche sull'evoluzione delle formazioni attuali della sinistra italiana, nell'analisi di Paolo Ciofi che, però, non rinuncia a proporre, in conclusione, una proposta costruttiva. In coerenza con quanto esplorato nei capitoli precedenti a proposito delle radici (globali e locali) del 'deficit di sinistra' che ha consentito ai poteri e alle culture liberiste di invadere lo spazio sociale lasciato libero - si veda, a questo proposito, l'opportuno richiamo alla creazione, da parte di Berlusconi, di un partito che, dopo quello delle astensioni, si è finora caratterizzato elettoralmente come il 'secondo partito operaio del paese' - Ciofi mette infine letteralmente il dito sulla piaga: la sinistra 'di governo' - ma la sinistra nel suo complesso - è approdata ormai alla cultura della negazione della centralità del valore del lavoro e al rifiuto programmatico di rappresentare i lavoratori in quanto tali, e non come parte indistinta di un indistinto corpo elettorale.
Qui, per Ciofi, la radice fondamentale della crisi e dell'evaporazione sofferta dalla sinistra (o di una sua parte fondamentale) nel nostro paese: l'effetto 'locale' di quel processo globale che ha visto l'economia prevalere sulla politica e il 'pensiero unico' liberista dilagare invadendo tutti gli spazi - culturali, politici e persino fisici - ormai abbandonati.
"Per una sinistra fondata sul lavoro" è il titolo del capitolo conclusivo e, in sintesi, la proposta cui il lungo percorso analitico ci conduce. Per l'autore, si tratta, dunque, di ricostruire, innovando, una continuità di pensiero - soprattutto in ordine al metodo dello studio critico del reale - che, riannodando i fili delle analisi teoriche, delle elaborazioni politiche, delle visioni strategiche e del più generale orizzonte culturale, costituisca il fondamento di una riaffermata centralità del lavoro.
Ciofi non è reticente, dal punto di vista strettamente politico: tutto ciò sarà possibile solo se le classi lavoratrici — modernamente intese in tutte le accezioni oggi necessarie a definire sia il 'lavoro subordinato' che quello 'autonomo' vero o presunto - si doteranno nuovamente di uno strumento di rappresentanza politica che le renda, in forme sicuramente inedite, protagoniste della storia del paese.
Da 'classe in sé' a 'classe per sé', con Karl Marx, non per guardare indietro a modelli e composizioni sociali irripetibili, ma per rigenerare - attorno all'attuale valore sociale del lavoro - un moderno blocco in grado di difendere e di espandere la democrazia.
Democrazia, dunque, come espressione e, al tempo stesso, garanzia di rapporti sociali strutturati in modo da porre al centro della vita collettiva non i devastanti interessi privati del moderno capitalismo 'liberista', ma i concreti bisogni e la continuamente vilipesa dignità delle donne e degli uomini che non accettano di essere ridotti a 'larve istituzionali', a 'clienti', a semplici elettori, cittadini astratti dotati solo di altrettanto astratte libertà individuali. Occorre, insomma, per Ciofi, ripartire dal riconoscimento del valore sociale del lavoro [e] da un'analisi di classe della società', [liberandosi] 'dal dogma blairiano secondo cui la lotta di classe è finita', [e recuperando] 'il modello europeo nelle sue fondamentali coordinate storico-sociali: la dualità lavoro-capitale, e l'autonoma rappresentanza politica del lavoro', [colmando dunque] la voragine che è stata aperta nella storia e nella cultura della nazione italiana con la cancellazione della migliore tradizione comunista e socialista: unità dialettica di riforme e rivoluzione, di peculiarità e generalità, di innovazione e di tradizione, di discontinuità e di continuità.
Per questo occorre rispondere «alla domanda stringente, e non certo rinviabile ad altra epoca storica, su come si possa oggi costruire un'autonoma e libera rappresentanza del lavoro in Italia [...] necessaria per garantire a tutti libertà ed uguaglianza, per far vivere i diritti ed inverare lo Stato di diritto».
Secondo Ciofi - e questo è il punto forse fondamentale delle sue conclusioni, che non mancherà di far discutere - è possibile dare a questi interrogativi «una risposta [...] semplice e chiara: assumendo senza esitazioni la Costituzione come piattaforma per un movimento politico di massa e per la definizione di un programma di riforme antiliberiste».
Molte e complesse, naturalmente, le tematiche politiche connesse a questo assunto: il ruolo del poderoso movimento contro la globalizzazione liberista, il rapporto tra la Cgil, il 'movimento di movimenti' e la sinistra politica. Si veda, a questo proposito, l'angolazione sotto la quale, nel quadro analitico proposto dall'autore, viene riproposta la vicenda politica e personale di Sergio Cofferati e, oltre, il dilemma dinanzi al quale ancora oggi si trova la CgiI: come esprimere, nel nuovo quadro auspicabile, la sua 'soggettività politica' senza 'farsi partito' e tentando, anzi, di rinnovare la propria attitudine unitaria di 'sindacato generale' delle classi lavoratrici?
La tesi di Ciofi - la si condivida o no nella sua formulazione - merita, io credo, una riflessione attenta.
La connotazione 'anti liberista' attribuita alle riforme necessarie per restituire corpo a un assetto democratico, che si va riducendo sempre più a pura somma di libertà individuali - a loro volta progressivamente limitate da vincoli di censo e di classe sempre più espliciti - non è, infatti, utilizzata da Ciofi per ridurre la portata della contraddizioni che, ormai a livello planetario, ripropongono con caratteristiche nuove ma sempre dirompenti la propria radice fondamentale: la contraddizione tra capitale e lavoro.
Al contrario, l'attributo 'antiliberista' a me pare voler correttamente indicare la caratterizzazione storicamente determinata dell'attuale scontro di classe, nei suoi aspetti economici, politici e democratici, additando dunque il concreto obbiettivo da raggiungere per ridare senso democratico compiuto a un assetto economico, sociale e istituzionale che sembra votato a essere sottoposto all'unica logica del mercato e al primato assoluto dell'impresa nel quale si esaurisce ogni altro diritto.
Nella conclusione alla quale giunge Paolo Ciofi: «[...] torniamo, per poter innovare davvero, all'ispirazione alta e ai principi fondamentali della Costituzione», non mi pare proprio vi sia una pulsione 'passatista' ma, semmai, quell' invocazione 'restauratrice' che — come fu detto — non può che accompagnarsi ad una realistica e democratica ambizione 'rivoluzionaria'.
Pur se non mi sento in grado di condividere la sicurezza di coloro, se ve ne sono, che ravvisino già oggi i presupposti per una inversione di tendenza che abbia «la Costituzione come programma», mi pare del tutto convincente l'indicazione che, comunque, l'attualità di tali condizioni vada Costruita, prima che sia troppo tardi.
O prima che qualcuno (magari anche a sinistra) si convinca che - come è stato detto dai quadri dell'Ufficio studi della Confindustria, D'Amato consule - il ruolo spettante alla classe degli imprenditori sia proprio quello di classe generale. Così, finalmente, il mondo tornerebbe sui suoi piedi! A riprova che, tra i pochi marxisti rimasti in Italia, sono sicuramente da annoverare - absit iniuria verbis - i cani da cerca della borghesia nostrana.
di Francesco Granone da Scaffali. Edizioni di Quale Stato