Il 4 dicembre si avvicina e il capo del governo, che teoricamente in un referendum sulla Costituzione non dovrebbe prendere parte, esonda come un fiume in piena, travolgendo tutti gli argini della comunicazione corretta e del buon governo. Un comportamento del tutto anomalo e senza precedenti nella vita della Repubblica, che ha prodotto una sfida aberrante - per usare l’espressione del presidente emerito buon precettore di un apprendista stregone -, e richiede pertanto una riflessione attenta soprattutto per le conseguenze che può avere sul nostro futuro.
Primo quesito. Quali benefici possono trarre gli italiani da una visone della Costituzione come «paradiso degli inciuci», per cui oggi coloro che dissentono non sono altro che «un’accozzaglia», ossia - secondo il vocabolario Treccani – «una turba confusa di persone spregevoli», che si oppone al capo del governo? Evidentemente ben pochi, dal momento che la nostra Carta fondamentale, da bene comune che regge il patto che ci unisce, come i padri costituenti l’hanno concepita, diventa uno strumento di parte maneggiato da chi detiene le leve del comando. Già le esperienze del passato sono state negative. E nel presente l’iniziativa del governo, in un momento difficile per l’Italia e per l’Europa, invece di unire il Paese, lo sta pericolosamente destabilizzando e dividendo.
Secondo quesito. Che senso ha l’affermazione fatta da Renzi il 22 novembre, secondo cui «questa riforma è contro la casta»? Di che parliamo? Che senso dobbiamo dare alle parole? La casta, chiarisce il nuovo padre costituente, sono prima di tutti i grillini. Quindi Grillo, che non è mai stato al governo ma che al governo rischia di mandarci qualcuno, è il capo della casta. Poi ci sono quelli che la casta l’appoggiano, come Landini: ovviamente a insaputa sua e degli operai e tecnici della Fiom. Senza dimenticare D’Alema e De Mita, che il boy scout di Rignano rottamatore della casta, come egli stesso si definisce, considera vecchi arnesi della politica attaccati alla poltrona.
Stranamente, in questa fantasiosa messa in scena, non trovate Berlusconi, forse in attesa di inciuci molto più consistenti di quello con Verdini in caso di vittoria del sì. Per ora il Cavaliere non compare neanche in quella numerosa anticasta di precari e proletari che toto corde sono dalla parte del rottamatore della casta. E che si chiamano Marchionne, Soros, Confindustria, J. P. Morgan, Goldman Sachs, Wall Street Journal, Financial Times e via enumerando tra banchieri, finanzieri e rappresentanti della élite capitalistica globale. I quali, con la complicità dei burocrati di Bruxelles, diffondono paure e ricatti annunciando prospettive catastrofiche in caso di vittoria del no.
In una campagna condotta da mesi a forza di bugie e inganni, da cui non può nascere niente di buono, la descrizione della casta propinataci non dal burattinaio del Gianicolo ma da chi ha la responsabilità del governo, il quale per di più della casta si dichiara rottamatore, è un capovolgimento puro e semplice della realtà, oltre i limiti del più elementare buon senso. Una vetta mai raggiunta finora, espressione tra le più compiute della cosiddetta antipolitica, o se volete di populismo dall’alto, che usa la manipolazione della realtà, e dunque la menzogna, per conquistare consenso e potere. In questo degrado della politica, e non nella Costituzione come vorrebbero farci credere, risiede una delle ragioni di fondo dello stato in cui viviamo in Italia.
Il capo del governo non si limita a dire bugie nel merito. Come quella secondo cui non viene toccata la prima parte della Costituzione riguardante i diritti e i doveri, che però diventa indisponibile se si cambia la seconda parte relativa all’ordinamento della Repubblica. Agisce con i metodi peggiori della politica clientelare, distribuendo non scarpe, come faceva il precursore Achille Lauro, ma da vero modernista mance e mancette denominate bonus, oltre che generose promesse per lo più prive di copertura finanziaria. E usa senza ritegno strutture e risorse pubbliche per una scelta di parte. L’élite ha il fucile puntato contro il populismo, una formula che dice tutto e il contrario di tutto, ma fa finta di non vedere che abbiamo a che fare con una pratica politica e con un metodo di governo che corrompono e destabilizzano il Paese.
E mentre Renzi insiste sulla necessità vitale di cambiare la Costituzione, come se la Costituzione fosse causa di tutti i mali, al tempo stesso la piccona. Soprattutto nei diritti sociali e nel fondamento del lavoro, che dovrebbe essere tutelato «in tutte le sue forme ed applicazioni», e invece da diritto torna ad essere merce - spesso di scarto, ci ricorda il Papa - nella piena disponibilità del capitale. Come avviene con il Jobs Act, con la moltiplicazione dei voucher, con la deregolamentazione degli appalti.
È ciò che vuole la vera casta di comando, quella della finanza e delle grandi banche, al cui servizio si è arruolato con l’elmetto il giovane scout che viene da Rignano sull’Arno, fiero combattente dalla parte del capitale nella guerra economica intercapitalistica che oggi investe l’Europa. Allora la nebbia si dirada, e appare chiaro il senso dell’operazione in corso, che si configura come un grande bluff. Da una parte, il can can su una pessima riforma costituzionale, che in realtà è una controriforma, serve a nascondere le vere cause della crisi e le responsabilità di una classe dirigente che ha fatto fallimento di fronte agli enormi problemi del lavoro, dell’immigrazione, del destino del pianeta. Dall’altra, con la controriforma che piace tanto a J. P. Morgan, tra i maggiori responsabili della crisi globale che dura ormai da quasi 10 anni, si tenta il colpo grosso: chiudere definitivamente un ciclo storico, che con la Costituzione della Repubblica democratica fondata sul lavoro apre le porte a una civiltà più avanzata, in cui l’economia sia al servizio degli esseri umani e non viceversa.
Riflettiamo con attenzione sul senso dell’operazione in atto. Con un’aggiunta non trascurabile. Quale affidamento può dare per il futuro dell’Italia un uomo politico che ha condotto la campagna referendaria in modo così divisivo e menzognero, arrogante e sgangherato? Ci pensino bene le compagne e i compagni, e tutti coloro i quali propendono per il sì attratti dall’idea del cambiamento. Ciò su cui ci dobbiamo pronunciare è un cambiamento, non c’è dubbio. Ma un cambiamento rivolto al peggio, che guarda al passato. Per la precisione, un vero e proprio arretramento storico.
Renzi è il nuovo? Anagraficamente sì, ma un nuovo che rilancia il vecchio, vale a dire il dominio della ricchezza e del denaro, nel gioco ormai palesemente scoperto di gruppi che vorrebbero manovrare a loro piacimento la politica italiana. Fino a conformare sui loro preponderanti interessi l’assetto costituzionale del Paese, esattamente secondo lo schema elaborato proprio da J. P. Morgan nel 2013. Di questo si tratta e non di poco. Per questo il 4 dicembre bisogna dire no. Per preservare la Costituzione nel suo impianto straordinariamente innovativo. Vale a dire mantenendo integri la sovranità popolare e il fondamento del lavoro della Repubblica democratica, da cui traggono vita i nuovi principi di libertà e di uguaglianza non più schiacciati dal peso insopportabile del capitale, e l’intera costruzione dei diritti sociali, civili, politici.
Teniamocela stretta, la nostra Costituzione. In questo difficile tratto della nostra storia, in cui le turbolenze interne si sommano a quelle internazionali con effetti imprevedibili, c’è bisogno di un punto fermo dal quale riprendere il cammino. La Costituzione è la nostra ancora di salvezza: proprio perché è un progetto di civiltà più elevata e di democrazia progressiva, che può portarci lontano, fuori dalla crisi. A condizione, ovviamente, che la Costituzione sia salvaguardata e applicata adottando quegli aggiornamenti puntuali ed efficaci che ne rendano più agevole l’attuazione, e non rottamata da chi ha confessato di avere in mente «un altro modello di democrazia».
Ci si interroga su cosa accadrà il 4 dicembre, come se la vittoria del no fosse un salto nel buio. A questo gioco si presta lo stesso Renzi, che continua a mantenere alta la tensione tra dimissioni annunciate in caso di sconfitta poi ritrattate, e poi di nuovo annunciate, dimostrando un tasso d’irresponsabilità ben più alto della crescita del Pil. Premesso che il famoso spread ha ripreso a crescere per la debolezza della nostra economia e in particolare per le crisi bancarie che non trovano soluzione, occorre fare chiarezza sulla questione dirimente.
Il 4 dicembre si vota sulla nostra Costituzione. E la Costituzione è la priorità assoluta, ben più rilevante della formazione di un governo e anche dell’andamento dell’economia. Quindi niente ricatti e niente paura. Votiamo in piena libertà, essendo ben consapevoli della posta in gioco. Se vince il sì, la Costituzione delle Repubblica democratica fondata sul lavoro viene rottamata e seppellita nel retrobottega della storia; se vince il no, la manteniamo in vita. E riapriamo la possibilità di lottare per attuarla salvaguardando tutte le garanzie: per noi e per le generazioni future. Questa è l’alternativa. Poi viene tutto il resto.
Paolo Ciofi
www.paolociofi.it